il documento allegato, oggetto di invio a tutti i soci, rappresenta la posizione ufficiale del CAI sulle problematiche riguardanti l’industria dello sci in relazione ai cambiamenti climatici in atto e prevedibili.
Si tratta di una proposta che come CAI avanziamo a tutti coloro che nelle aree montane fruiscono delle ricadute economiche del turismo invernale.
E’ però anche una precisa posizione che proponiamo a tutti i frequentatori della montagna e a tutti gli italiani che praticano sport invernali (quattro milioni, dei quali tre lo sci da discesa), agli amministratori pubblici, alle altre associazioni di protezione ambientale, a tutto l’associazionismo e agli operatori economici.
Il documento, elaborato dalla nostra Commissione Tutela Ambiente Montano, fatto proprio dalla Presidenza generale e dal CDC, approvato all’unanimità il 21 novembre dal Comitato Centrale di indirizzo e controllo, illustra in modo esauriente le tematiche, spesso oggetto di confronto anche aspro, relative al futuro delle attività sciistiche e degli impianti per la pratica dello sci da discesa e contiene una puntuale analisi riguardante non solo l’ambiente, ma anche l’economia dello sci da discesa in Italia, nell’arco alpino e nei Paesi europei..
Si tratta di un naturale perfezionamento delle indicazioni contenute nel nostro Bidecalogo che, nel tracciare le linee di indirizzo e di autoregolamentazione in materia di ambiente e tutela del paesaggio, al punto 4 sul turismo in montagna recita testualmente: ”Il CAI è di norma contrario alla realizzazione di nuove infrastrutture, nuovi impianti o di ampliamento di quelli esistenti, in particolare nelle Aree Protette e nei Siti Natura 2000”.
Il documento affronta però anche altri aspetti, marginalmente trattati dal Bidecalogo e finalmente, dopo l’attenta analisi circostanziata della condizione degli impianti e stazioni esistenti: la valutazione dei benefici e dei costi che essi producono per le comunità locali e il paesaggio montano, gli effetti dei cambiamenti climatici sulla durata dell’innevamento, la situazione del mercato quanto a offerta e domanda sciistica( la prima eccedente rispetto la seconda).
La diversificazione dei servizi offerti dalle località di montagna e dalle stazioni sciistiche viene considerata un passo importante (che potrebbe aiutare la crescita anche del turismo estivo), anche se insidiosamente ambivalente quando ancora ispirata dal modello urbanocentrico di civiltà (che vorrebbe disporre in montagna di attrazioni già disponibili in città). Di qui la necessaria attenzione andrà posta alla qualità dei servizi turistici offerti, non invasiva dell’identità e del paesaggio delle Alpi e degli Appennini.
In effetti, per disporre di una durata maggiore della stagione, vista la penuria di neve che sempre più si prevede per gli anni a venire, la monocultura prevalente dello sci di pista tende a privilegiare investimenti per ampliare gli impianti sciistici e realizzare nuovi comprensori; scelta apparentemente più concorrenziale e migliorativa. In realtà i fattori climatici, uniti alla impossibilità di ulteriore espansione del mercato dell’industria dello sci, rende questi investimenti di dubbia efficacia sul piano della redditività economica, e li espone a rischio fallimento, provocando un insostenibile quanto insopportabile incremento delle sovvenzioni pubbliche (gli enti pubblici locali e regionali sono già divenuti la cassaforte che tiene in vita, con risorse delle tasse dei cittadini, la gran parte degli impianti esistenti).
Gli effetti di queste scelte, che tendono alla proliferazione di nuove infrastrutture, oltre a prefigurare erronee destinazioni di risorse economiche e finanziarie esistenti, generano devastanti conseguenze sull’ambiente, la biodiversità, la stabilità idrogeologica dei territori, ed anche distorsioni e diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza e dei redditi, tra le diverse località montane, intere vallate e tra i cittadini residenti. Peraltro note ricerche effettuate suggeriscono che il gigantismo degli impianti non porta maggior reddito alle popolazioni e a ciascun abitante delle terre alte.
Per trovare zone innevate la tendenza è sempre più quella di innalzare la quota altimetrica in cui realizzare impianti, compromettendo zone intatte e destinate ai soli alpinismo, scialpinismo, escursionismo e alla preservazione della natura selvaggia incontaminata.
C’è dunque da parte del CAI una netta presa di posizione di contrarietà ad ampliamenti e alla realizzazione di nuove infrastrutture anche in alta quota.
Centinaia di milioni di euro proposti per nuovi progetti di impianti, spessissimo con la partecipazione di fondi pubblici, potrebbero essere destinati a strategie alternative e praticabili, programmando diversificazione e sviluppo economico locale maggiormente confacenti con gli obbiettivi di Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, nella consapevolezza che la dipendenza dal solo turismo rende la montagna debole e vulnerabile. Vanno cioè potenziate le attività produttive tradizionali come il turismo rurale, la piccola impresa artigiana e l’agricoltura di montagna, ma anche sostenute le attività innovative di una economia legata ai siti Natura 2000 e ai Parchi, in sinergia con la filiera agroalimentare, il settore forestale, la ristorazione, l’offerta culturale, il commercio di prossimità e le produzioni tipiche locali, con la creazione di appositi marchi di qualità.
Per attrarre nuovi residenti nelle terre alte e assicurare la qualità della vita di chi già vi risiede, occorre garantire certezza nella disponibilità e diffusione di servizi e infrastrutture indispensabili: scuole, medicina di base e territoriale, farmacie, centri sportivi e culturali polivalenti, servizi bancari anche dedicati agli impieghi in loco, servizi postali e di telecomunicazione efficienti e capillari, servizi per gli anziani e i giovani, mezzi pubblici funzionanti, sistemi telematici moderni, superando il digital divide ancora penalizzante per la montagna.
Il documento propone un ripensamento della programmazione edilizia, suggerendo uno stop a nuove costruzioni e seconde case, dando precedenza alla riqualificazione del patrimonio esistente. Propone di realizzare piani di recupero di 200 stazioni e impianti abbandonati disseminati sulle montagne italiane che devastano il territorio, anche riutilizzando i manufatti abbandonati destinandoli a nuova accoglienza.
In conclusione: non serve abbaiare alla luna. Serve concretezza e chiarezza nella lettura del presente e nelle previsioni per il futuro, accompagnate a quella moderazione necessaria per incontrare il consenso nel delineare una transizione verso una nuova economia montana, nella quale gli interessi in campo siano orientati verso la sostenibilità attraverso un patto di solidarietà tra città e montagna, tra residenti e frequentatori, orientati a fare interagire ambiente, clima e sviluppo, interessi locali e nazionali, individui e collettività.
Dal punto di vista turistico si può potenziare l’attività diversa dallo sci alpino, dalla valorizzazione dell’ospitalità diffusa ( pensiamo alla diffusione dei Villaggi degli alpinisti o a un ruolo attivo dei Rifugi alpini nel territorio), al potenziamento delle nuove tecnologie per favorire la residenza e nuova imprenditorialità in montagna, anzitutto programmando l’uso di ingenti risorse da destinare alle aree montane e interne, per creare sviluppo di qualità e occupazione, manovrando la leva della fiscalità di vantaggio per chi abita, lavora e imprende nelle terre alte, con un uso coerente e determinato di piani e fondi europei, a cominciare dal New Green Deal, al Recovery Plan, al Next Generation EU.
Il CAI ci crede e propone una via diversa dalla vecchia ricetta, distorsiva e datata, della crescita economica quantitativa della montagna, tutta incentrata sulla monocultura dello sci da discesa.
Suggeriamo una attenta lettura dell’intero documento e attendiamo un gradito ritorno di proposte e considerazioni, anche critiche, che possano migliorare le nostre posizioni.
Erminio Quartiani – Vicepresidente Generale CAI